Sulla strada della Memoria, ripercorrendo il viaggio del 2017

Occhi vispi, curiosità, attesa, una pesante valigia da trascinarsi dietro: inizia così il Treno della Memoria. Una comunità viaggiante che prende forma, volti interrogativi e, solo dopo, il viaggio. Lungo, faticoso, intenso. Un viaggio di 14 ore verso il cuore dell’Europa.

Qualcuno, quando compie 17 anni, si rende conto che i libri raccontano molto, ma non tutto. Allora succede che qualcuno, facendo i conti con se stesso, capisca che vivere la storia concede l’opportunità di sentirsi pronti a cambiare il mondo. I più coraggiosi ci provano e decidono di partire, perché sanno che per capire occorre andare oltre la strada di casa.

La Valle di Susa rappresenta la vera forza del Treno: la trasmissione dell’impegno” ha dichiarato Alessandro Azzolina, responsabile del Treno della Memoria in Piemonte. “Ogni anno partono educatori giovanissimi affiancati da quegli educatori che negli anni sono diventati dei solidi punti di riferimento per il territorio. Tutto questo genera gruppi educativi incredibilmente coesi, capaci di rendere meravigliosa e realmente significativa l’esperienza”.

Così, venerdì 10 febbraio 2017, sono partiti 135 giovani valsusini: portavano addosso la voglia di scontrarsi col passato, ma anche la voglia di cambiare il mondo.


Un giorno anche tu hai deciso: un abbraccio e poi sei partito

Nella capitale dell’Ungheria, in un primo momento, abbiamo visitato il museo dell’olocausto. Poi, a passo svelto, abbiamo proseguito il giro della città sulle orme di Giorgio Perlasca che, nel 1944, fingendosi console spagnolo, salvò la vita di oltre 5000 ebrei ungheresi strappandoli dalla deportazione nazista.

La visita si è conclusa sulle rive del Danubio dove, con occhi lucidi, abbiamo ammirato il ponte delle catene che collega Buda a Pest. Abbiamo acceso dei lumini per commemorare le vittime davanti al monumento delle scarpe, realizzato dallo scultore Gyula Pauer per rappresentare il rastrellamento degli ebrei effettuato dalle Croci Frecciate della città.

Poche ore dopo ci trovavamo nuovamente sulla strada: abbiamo capito che non c’è tempo per chiudere gli occhi. Qualcuno cantava sulle note d’una chitarra acustica mentre, circondati dalla neve, viaggiavamo sui Carpazi.

Eravamo diretti verso la gelida Rzerszow, dove abbiamo trascorso una sola notte. Il mattino seguente abbiamo ricevuto un primo pugno nello stomaco. Siamo stati a Bełżec, quello che fu il secondo campo di sterminio nazista. Laggiù non rimane altro che un assordante silenzio ed un gruppo di querce rovere che, con saggezza, sanno raccontare la storia in cui hanno affondato le loro radici.

Bełżec è una sensazione di vuoto” ha raccontato Irene Bronzino, “Camminare lungo quel corridoio verso la camera a gas dimostra come tutto sia possibile: in un’Europa di scelte, possibilità, informazione, visitare Bełżec è un modo per dire che non si vuole dimenticare, è un modo di dire “io sono qui e vi ricordo”. Non lasceremo che questa lezione si perda nell’aria, la porteremo in giro per il mondo facendoci forti delle nostre idee e delle nostre opinioni, urlando e lottando affinché l’odio non prevalga sull’amore”.

Mentre ci trovavamo a Rzerszow un altro gruppo della Val di Susa si trovava a Theresienstadt, nei pressi di Praga. Dopo aver camminato in quell’emblematico campo, i ragazzi hanno proseguito la visita a Lidice, un comune della Repubblica Ceca che, il 10 giugno 1942, venne dato alle fiamme.

L’area è stata bonificata e ora, sulle sue ceneri, si trova un rigoglioso parco al centro del quale spicca una statua rappresentante gli 82 bambini che, su indicazione di Eichmann, furono portati al campo di sterminio di Chełmno, dove vennero gasati nel giorno del loro arrivo. 

Le nostre prime impronte le abbiamo lasciate a Budapest e Praga, ma è stato solo l’inizio: con le palpebre pesanti e alcune guance rigate dal pianto i due gruppi si sono riuniti a Cracovia.

Insieme, martedì 14 febbraio, abbiamo visitato la fabbrica di Schindler. La visita è proseguita nel quartiere di Podgórze, che il 3 marzo 1941 divenne il ghetto ebraico di Cracovia, ed è terminata dinanzi alla sinagoga vecchia. 

A quel punto solo poche ore ci separavano dalla tappa più importante. Nella mattina di mercoledì 15 febbraio Auschwitz era avvolto dalla foschia, ma il sole, prepotente, ha voluto inondare quel luogo: era paradossale la bellezza con cui la luce sapeva farsi spazio in un posto così tetro.

Le mie aspettative sono state sconvolte. Le emozioni sono esplose quando siamo arrivati nella stanza che contiene i capelli” ha spiegato Mara Coccolo, “L’impatto è stato forte. L’odore all’interno della camera era opprimente, indescrivibile. Penso che tutto sia scaturito dal fatto che si parla spesso di numeri: numeri sui libri di storia, numeri al telegiornale. Rabbia. La rabbia è stata l’emozione che mi ha travolto quando sono uscita da quel campo. Si è fatto spazio un grande vuoto dentro di me, perché non mi capacito dell’odio che le persone in quegli anni potessero provare verso una “razza”, non mi capacito della disumanizzazione”.

Dove sembra infinito anche un solo secondo

A Birkenau tempo e spazio si dilatano: gli occhi osservano quei binari e si perdono nell’orizzonte, perché non c’è modo di vedere la fine. Eppure la fine era così vicina per coloro che entravano in quell’inferno, ed è atroce pensare che il cimitero più grande del mondo apparisse alla vista come un candido bosco di betulle.

Il terreno è fangoso, le scarpe affondano nelle pozzanghere. Dirigendoci verso l’ala destra del campo ci siamo trovati dinanzi a un laghetto dove ancora si percepisce l’odore delle ceneri che furono gettate al suo interno. Si prosegue nella sauna, dove i prigionieri venivano privati della loro dignità: oggetti, capelli, nome. Non restava che un corpo nudo, infreddolito, numerato.

L’ultima sala splende di vita quotidiana, tante sono le immagini di persone felici che sorridono alla vita prima di conoscere l’oblio della guerra: un pranzo in famiglia, sorelle che si guardano negli occhi, l’innocenza di un neonato, una coppia di scout. Non numeri, persone.

Avvolti dalla luce d’un tramonto bello da mozzare il fiato, siamo andati controcorrente lungo quel binario. Impossibile non emozionarsi alla vista della meraviglia che si posa leggera su questo mondo troppo spesso crudele: laddove tante vite hanno esalato il loro ultimo respiro, il Treno della Memoria propone ai giovani di soffermarsi a riflettere su quanto sia bella la vita, quanto sia preziosa, tenendo a mente che oggi siamo liberi di uscire da quei cancelli, liberi di alzare la voce.

Appena usciti dal campo, con gli occhi ancora colmi di quella luce, ciascuno ha scelto con chi guardare il tramonto. Abbiamo smesso di piangere, non ci siamo sentiti in colpa a sorridere. Questa è la magia che regala il Treno della Memoria: giorni pieni di vita, di emozioni, riflessioni, risate, lacrime, abbracci infiniti. Otto giorni che cambiano nel profondo e fanno crescere.

Il ritorno porta addosso mal di testa e mal d’anima

Potrei dire che il viaggio è stato bello, sì, ma non credo sia solo questo” ha confidato Jules Cataldi, “La verità è che mi ha fatto crescere, mi ha permesso di apprezzare di più quello che ho. Il pensiero che bastasse trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato mi tormenta, perché un secondo era sufficiente per permettere a qualcuno di decidere se dovevi vivere o morire. Ho provato emozioni sconosciute, ma ho anche percepito emozioni quotidiane. Ho provato rabbia, soprattutto, e devo dire che mi è servito”.

Sentivo spesso dire che il vero viaggio inizia dopo, ma non ci ho creduto del tutto fino a quando non sono tornata a casa” ha aggiunto Rossella Porro, “Una volta qui ho cercato il silenzio, le emozioni dei campi, ho pianto guardando ciò che sta accadendo ora nel mondo. Ho cercato comprensione da coloro a cui ho raccontato, ma non l’ho trovata, anche se non sono mancati stupore ed interesse. Non puoi capire se non lo vivi. Mi è rimasta la consapevolezza, la voglia di tirare su le maniche e impegnarmi a cambiare il mondo”.

Dell’amore che resta

Giovedì, ancora un po’ confusi, ci siamo confrontati. Quello è il momento in cui gli insegnamenti iniziano a riflettersi nel presente: si inizia con un abbraccio, perché gli abbracci ci permettono di ascoltare cos’ha da dire il cuore di chi ci troviamo davanti.

Era finalmente chiaro che non siamo soli: fino a quando qualcuno si sentirà parte di una comunità, qualche folle potrà addirittura illudersi che non ci saranno più pretesti per scatenare guerre. Il giorno dopo, parafrasando Jack Kerouac, le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede.

Avevamo molta strada da fare, ma non importava: la strada è la vita.


Questo articolo l’ho scritto dopo la mia prima esperienza come educatrice del Treno della Memoria il 21 febbraio 2017 ed è stato pubblicato sul settimanale La Valsusa giovedì 23 febbraio 2017, prima pubblicazione della rubrica Valsusa Giovani.