Alessia Taglianetti

View Original

Dal tramonto di Casablanca all'alba su Tsevié: dal principio, un viaggio solo andata

Il mondo fuori dal finestrino appare ai miei occhi lento, silenzioso. Per un attimo ci siamo solo io e il cielo. Mi sono emozionata alla vista dello stretto di Gibilterra. D’improvviso, poi, la terra ha cambiato aspetto: sotto l’ala dell’aereo, mentre sorvolavamo ancora l’Europa, riuscivo a scorgere distese verdi incorniciate dalle montagne; ora, sopra al Marocco, c’è terra, terra vera, a perdita d’occhio.

La prima volta che ho posato i piedi fuori dal continente in cui sono nata e cresciuta è stato il 27 luglio 2017. Il sole stava tramontando: mai lo avevo visto così rosso, grande, perfetto. Sul mio diario ho annotato che quel momento, quella visione che ancora percepisco vivida, mi ha fatto riflettere sul perché delle cose, in particolar modo sul perché il destino avesse voluto proprio me, proprio lì, in quell’istante così perfetto, in quel preciso luogo.

Sono trascorsi più di tre anni, tanti mi separano da quel pensiero rimasto però immutato. Non ho una risposta, ma ho sempre saputo che per me, quel viaggio, sarebbe stato di sola andata. Dal tramonto di Casablanca all’alba su Tsevié, passando per interminabili momenti d’attesa per poter tornare, ancora e ancora, a perdermi in quella foresta della savana dimenticata dalle mappe, lì dove sono arrivata per caso, lì dove mi sento a casa.

Un viaggio cominciato sul far del giorno, o forse molto prima, atteso e sognato per anni interi.
Nel giro di 24 ore, poi, eccomi 5997 chilometri più a sud nel mondo.

Tempo di lettura: 10 minuti
Ascoltalo con la mia voce

Your browser doesn't support HTML5 audio

Dal tramonto di Casablanca all'alba su Tsevié: dal principio, un viaggio solo andata Podcast

Si atterra a Lomé, nel quartiere Tokoin, all’aeroporto Gnassingbé Eyadéma, intitolato a colui che fu presidente del Togo dal 1967 al 2005.

Lomé, la capitale, è una città di contrasti.
Un tempo veniva chiamata “La perla dell’Africa occidentale”, oggi conserva un fascino e una disinvoltura che la rendono unica. La città fu fondata dagli Ewe nel XVIII secolo e furono proprio loro a darle questo nome, Alotimé, che in lingua Ewe significa “in mezzo alle piante d’Alo”.

A Lomé s’intrecciano influenze e tradizioni. Nel cuore della città, però, la tradizione prende il sopravvento e si fa spazio, tra giardini ed edifici colorati, con il mercato dei feticci di Akodessewa. Il Togo e il vicino Benin, infatti, sono i luoghi in cui è nato il vodun (vudù): ad Akodessewa si possono trovare tutti gli ingredienti necessari per i rituali, ma anche feticci, talismani, oggetti impregnati del potere divino usati per curare e proteggere.

See this map in the original post

Dopo aver caricato i bagagli sul tettuccio di un vecchio van bianco, ci si addentra nella capitale. La strada principale è una, taglia il Togo a metà e conduce verso nord, passando per Tsevié, Notsé, Atakpamé, poi ancora Sokodé e Kara, fino a Dapaong, dove si divide a pochi chilometri dal confine con il Burkina Faso.

Per arrivare ad Asrama, 121 chilometri a nord-est di Lomé, si percorre la N1 fino a Notsé, poi si svolta a destra e si insegue l’orizzonte, sempre dritto, per circa mezz’ora.
Qui finisce la narrazione precisa, perché la strada asfaltata sfuma nella terra rossa pregna d’argilla, e i minuti, che fino a quel giorno avevo incasellato nel calendario con meticolosa precisione, si perdono nel tempo.

L’europeo e l’africano hanno un’idea del tempo completamente diversa, lo concepiscono e vi si rapportano in modo opposto. Nel concetto europeo il tempo esiste obiettivamente, indipendentemente dall’uomo, al di fuori di esso, ed è dotato di qualità misurabili e lineari. Secondo Newton il tempo è assoluto: “Il tempo assoluto, vero, matematico scorre in sé e per sé in virtù della sua stessa natura, uniformemente e senza dipendere da alcun fattore esterno”.

L’europeo si sente schiavo del tempo, ne è condizionato, è il suo suddito in tutto e per tutto. Per esistere e funzionare deve osservare le sue ferree e inamovibili leggi, i suoi rigidi principi e le sue regole. Deve rispettare date, scadenze, giorni e orari. Si muove solo negli ingranaggi del tempo, senza i quali non può esistere. Ne subisce i rigori, le esigenze e le norme. Tra l’uomo e il tempo esiste un conflitto insolubile che si conclude inevitabilmente con la sconfitta dell’uomo: il tempo annienta l’uomo.

Gli africani, invece, intendono il tempo in modo completamente opposto. Per loro si tratta di una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva. È l’uomo che influisce sulla forma del tempo, sul suo corso e ritmo. Il tempo è addirittura qualcosa che l’uomo può creare: infatti l’esistenza del tempo si manifesta attraverso gli eventi, e che un evento abbia luogo oppure no dipende dall’uomo.
Il tempo si manifesta per effetto del nostro agire: se cessiamo la nostra azione o addirittura non l’intraprendiamo, esso sparisce. Il tempo è un’entità inerte, passiva, soprattutto condizionata dall’uomo.

— Ryszard Kapuściński, “Ebano”, pagg. 20-21

Notsé è il crocevia che spezza l’asfalto. Ci siamo fermati lì, io e i miei compagni di viaggio, per bere una Coca-Cola al bar La Fraicheur, per assaggiare il latte di cocco e per raggiungere, in sella alla motocicletta di Georges, il mercato locale, dove abbiamo acquistato latte in polvere e biscotti per la colazione.

Girare in motocicletta per quelle strade sconnesse è per me un’immagine di libertà assoluta. All’inizio, da “brava” occidentale quale ero, avevo paura di cadere, di scompigliarmi i capelli o di sporcarmi. È durata poco, quella mia sciocca “preoccupazione”: ricordo di aver chiuso gli occhi, di aver alzato il mento verso il cielo e di aver respirato una libertà mai provata prima. Ho tolto l’orologio dal polso e tutti i pensieri dalla mente: ancora non lo sapevo ma, da quel momento in poi, lì non sarei più stata l’Alessia con cui ho convissuto per 22 anni, ero diventata Amie, che poi è il mio nome in Ewe.

Nel cuore della foresta d’Asrama, tra un mango e un nīm, ecco poi apparire la casa che ci ha accolto.

Asrama si percorre a piedi o, per tratte più lunghe, in motocicletta. Mentre cammini è probabile che una gallina o una capretta attraversino la strada, ma ancor più probabile è sentire una curiosa cantilena: la tua pelle bianca, certamente, non passa inosservata. Allora ecco che i bambini, con tutta l’innocenza di cui sono capaci, ti iniziano a indicare col dito e ti ripetono, ghignando, “Yovo, yovo, bonsoir”. Bianco, bianco, buonasera.

Per strada si uniscono musiche diverse: qualcuno chiacchiera, qualcuno riposa, dalle botteghe si propaga l’afro pop della nigeriana Yemi Alade o dell’ugandese Eddy Kenzo. Vicino all’incrocio, una donna intreccia i capelli delle bambine, mentre poco più in là, un sarto, cuce abiti dalle stoffe colorate fino a tarda sera. La musica è una costante, però, anche di notte.

Ci si sveglia quando il sole albeggia, si riposa quando il sole tramonta. Non ci si chiede quanto tempo ci vorrà per arrivare da qui a lì, si va e basta. Si cucina quando si ha fame e non quando è, convenzionalmente, l’ora di pranzo. La parte più bella, però, è poter dire a qualcuno “A più tardi” e non “Ci vediamo alle 14:25” perché puoi starne certo, non si sa quando, ma quel qualcuno arriverà.

Le giornate allora scorrono così, ad Asrama, tra impegni quotidiani e momenti condivisi. Quando cala la sera basta riunirsi intorno al fuoco, preparare una buona porzione di fufu con l’igname e godere della semplice bellezza dello stare insieme. Le case sono sparse, le pareti sono d’argilla e la maggior parte dei tetti in paglia, perché filtra il calore meglio della lamiera. Le persone, però, trascorrono la maggior parte del tempo all’esterno, condividendo il loro tempo con la famiglia allargata.

Qui la storia è sempre stata una tradizione orale, una leggenda tramandata di bocca in bocca, un mito collettivo creato inconsapevolmente ai piedi di un mango, nelle tenebre della sera rotte solo dalle voci tremolanti dei vecchi, mentre donne e bambini pendevano muti dalle loro labbra. Per questo l’ora della sera è così importante: è il momento in cui il gruppo si domanda chi è e da dove viene, si rende conto della propria diversità e particolarità, definisce la propria identità. È l’ora dei colloqui con gli antenati che, anche se non ci sono più, sono sempre lì, continuano a guidarci e a proteggerci dal male.

La sera il silenzio sotto l’albero è solo apparente. In realtà è pieno delle voci, dei suoni e dei fruscii più svariati. Arrivano da tutte le parti: dai rami alti, dalla macchia circostante, da sottoterra, dal cielo. In quei momenti è meglio stare in gruppo. La presenza degli altri rincuora e dà coraggio.

Odo parlare persone dai visi forti e lucenti, come scolpiti nell’ebano, avvolti da un silenzio dove niente si muove. Parlando si sentono responsabili della storia del loro popolo. Sono loro a conservarla e svilupparla. La storia qui, libera dal peso degli archivi e dal rigore dei dati, raggiunge la sua forma più pura e cristallina: quella del mito.

Un mito dove invece dei dati e della misura meccanica del tempo - giorni, mesi, anni - vigono espressioni quali: “tempo fa”, “molto tempo fa”, “tanto tempo fa che nessuno più se ne ricorda”, termini che consentono di collocare e di sistemare tutto nella gerarchia del tempo. Un tempo che non si svilupperà in modo lineare, ma assumerà la forma del moto terrestre: una forma rotatoria, uniformemente circolare. In una simile visione del tempo il concetto di sviluppo non esiste. sostituito dal concetto di durata. L’Africa è l’eterna durata.

— Ryszard Kapuściński, “Ebano”, pagg. 270-271

Asrama non è solo un villaggio, ma un cantone di cui fanno parte anche altri 55 villaggi. C’è Kamé, dove si conduce una vita di sudore e fatica e, la maggior parte delle persone, lavorano nei campi; così come a Tohouédéhoué, dove però ora si trova anche un piccolo ristorante dal menù decisamente multietnico gestito da Georges.

I villaggi si raggiungono in moto-taxi (chiamati anche zemi-john) attraverso sentieri impervi: quelli più isolati nella brousse sono quelli più autentici, dove la vita scorre ancor più lenta e dov’è ancor più presente l’animismo. Spesso, vicino alle porte d’ingresso delle case, si trovano veri e propri totem, ma anche disegni sulle porte stesse, raffigurazioni della vita quotidiana o di fasi importanti della vita.

N. 6° 58’ 35’’
E. 1° 22’ 54’’

Il gruppo etnico più numeroso, in Togo, è quello degli Ewe che, come gli Aja, migrarono in Benin, nel sud del Togo e in Ghana a partire dal XVI secolo, ma sono originari della Nigeria. Furono proprio gli Aja, intorno all’anno 1000, a fondare il primo reame nell’area dell’attuale regione degli altopiani togolese, il Reame di Tado, che prosperò fino al XIX secolo. Il loro re veniva chiamato Anyigbãfio e, ancora oggi, il re della terra viene incoronato per celebrare la ricorrenza dell’arrivo degli Ewe e degli Aja dalla Nigeria.
La festa si svolge proprio a Tado-Adatche, sul confine con il Benin: ho avuto l’onore di assistervi dal vivo il 24 agosto 2019. Dopo la vestizione e l’incoronazione del re, si susseguono canti e danze, ma anche interventi da parte di volti noti della politica locale.

Ripercorrendo la strada per il ritorno, impossibile non fermarsi, tra Tohoun e Asrama, sul ponte che attraversa il fiume Mono. Prendetelo come un rito, come lanciare la monetina nella fontana di Trevi: il tempo di una fotografia, tanto basta per fare un patto con se stessi e promettersi che, presto o tardi, si farà ritorno in questa terra sospesa nel tempo.


L’Ewe, oltre a essere il nome di un gruppo etnico locale, è anche una delle 39 lingue indigene correntemente in uso in Togo. La lingua rappresenta un legame di forte identità e di trasmissione della cultura eppure, ormai da tempo, viene trasmessa solo a livello orale, con il rischio che possa estinguersi nella prossima generazione o in quella successiva. Sempre più spesso, però, i volontari di tutto il mondo approdano in queste terre per “insegnare” una volta l’italiano, una volta il francese, l’inglese, il portoghese, lo spagnolo, magari ora anche il cinese. Ma qual è lo scopo? Anche la lingua, quando imposta, si trasforma in un’ulteriore forma di supremazia, di potere e di controllo.

Il capoluogo della regione degli altopiani, però, è Atakpamé, città che fu campo di battaglia tra l’impero Ashanti e gli Akan che, nel 1764, si unirono all’impero Oyo e al regno di Dahomey.

Un tempo luogo di soggiorno prediletto dai coloni tedeschi, Atakpamé è oggi un centro cruciale per il commercio. Ciò che incanta maggiormente è la vista sugli altopiani, in particolare dalla terrazza dell’Eglise Sainte Famille si gode di una vista mozzafiato sui dolci pendii. In questa zona si trova anche la vetta più alta del Togo, il monte Agou (986 metri). Il sentiero per raggiungerlo attraversa i cortili delle case, tra piantagioni di cacao e caffè. Le pendici della montagna, costellate di piccoli villaggi a terrazze, regalano panorami splendidi.

See this map in the original post

Nella regione marittima, invece, oltre alla capitale Lomé si trovano Aného, Agbodrafo e Togoville.

Ho un legame profondo con il mare. Ad Aného il fiume Mono si perde nelle acque gelide dell’oceano Atlantico, le spiagge, solitarie e selvagge, affrontano la risacca con imperturbabile pazienza. Quando il sole tramonta il cielo diventa arancione, poi rosso vivo. I pescatori sfidano quelle rive nervose e lanciano le loro reti mentre il giorno si spegne all’orizzonte. Nel porticciolo le imbarcazioni colorate ondeggiano d’un ritmo preciso e ripetitivo: attendono l’uomo che le condurrà in mare aperto o forse, più semplicemente, il viaggio ancora non compiuto, quello che verrà.

Ma com’era venuta, a Erodoto, quella passione? Forse tutto era cominciato da una di quelle domande che fanno i bambini: “Da dove arrivano le navi?”. Giocando con la sabbia sulla riva del golfo, i bambini vedono improvvisamente spuntare all’orizzonte una nave che viene verso di loro e diventa sempre più grande. Ma da dove viene? Sono domande che di solito la maggior parte dei bambini non si pone. Di tanto in tanto, però, ce n’è uno che, costruendo il suo castello di sabbia, chiede: “Ma da dove viene quella nave? Quella linea molto lontana sembrava la fine del mondo: possibile che dietro di essa ci sia un altro mondo e, dietro, un altro ancora? E di che mondi si tratta?”. Il bambino comincia a cercare una risposta e, una volta cresciuto, la cerca con sempre più insistenza e curiosità.

La risposta sta in parte nel viaggio stesso, nello spostarsi, nel cammino. Erodoto […] ci stupisce con la sua perseveranza, non si lamenta per la stanchezza, niente lo scoraggia, niente gli fa paura. Che cosa lo guida quando, impavido e instancabile, si lancia nella sua grande avventura? Forse l’ottimistica convinzione, in cui noi moderni non crediamo più, che il mondo si possa descrivere.

— Ryszard Kapuściński, “In viaggio con Erodoto”, pagg. 248-249

Allora m’immagino, di fronte all’immensità dell’oceano, un bambino seduto sulla spiaggia, vestito di pagne, con i capelli neri increspati da vento e salsedine che, sognando a occhi aperti come solo da bambini riusciamo a fare, si interroga su dove andranno, domani, quelle barche leggere, oppure su dove andrà lui quando, da grande, ricorderà che quell’acqua non è semplice acqua, che la risacca non disegna un confine laddove finisce la terra, ma si fa ponte per raggiungere quella linea lontana, che non è la fine ma il ventre del mondo.

N. 6° 13’ 43’’
E. 1° 36’ 21’’

See this map in the original post

Qualche chilometro più a ovest c’è Agbodrafo, il Porto-Séguro che, in passato, ha visto sulla sua sabbia umida uno dei più atroci avvenimenti della storia moderna: la tratta atlantica degli schiavi. Woold Homé - forse più nota come la “Maison des ésclaves” - porta con sé, a imperitura memoria, il nome del commerciante di schiavi inglese Woold.

Il Regno Unito, nel 1807, proclamò lo Slave Trade Act, impegnandosi così per l’abolizione di quell’abominio, ma la storia ha poi fatto un altro corso e la tratta atlantica proseguì ancora per decenni. Woold Homé, infatti, venne costruita nel 1835, poco dopo l’insediamento ad Agbodrafo di una parte del clan Adjigo, cacciato da Aného e guidato dal capo Assiakoley. Quest’ultimo, abituato alla schiavitù imperante in quel tratto di costa, fece costruire questo edificio per portare avanti i propri affari.

Le stanze ospitavano i mercanti di schiavi, mentre sotto ai loro piedi, nascosti in uno “scantinato” che raggiunge a malapena il metro e mezzo d’altezza, venivano stipati gli schiavi. Alzarsi era impossibile e le persone lì imprigionate restavano sedute, accovacciate o distese sulla sabbia umida, a pochi metri dall’oceano.

I prigionieri, provenienti da quelli che oggi sono gli stati del Togo, Benin, Ghana, Burkina Faso, Niger e Nigeria, passarono in migliaia da quel tugurio e dal Gatovoudo, il “pozzo incatenato” dove, prima di essere imbarcati sulle negriere che li avrebbero poi condotti nelle Americhe, subivano il loro ultimo “bagno di purificazione” sul suolo africano.

Woold Homé, oggi, è un monumento, un testimone silenzioso di una tragedia umana che si protrasse tra l’ultimo quarto del XVII secolo e la fine del XIX.

Da Agbodrafo bastano una manciata di minuti per raggiungere il Lac Togo. Dall’hotel Le Lac è possibile prendere una piroga per raggiungere la vicina Togoville, un tempo sede della dinastia Mlapa e storico centro del vodun in Togo. A Togoville, nel 1884, furono firmati i trattati che consegnarono alla Germania i territori intorno al lago che, da quel momento, presero il nome di Togoland.

La cattedrale Notre Dame du Lac Togo risale al 1910 e, nell’agosto del 1985, venne visitata anche da Giovanni Paolo II. Di fronte alla cattedrale c’è un sacrario in onore della Vergine Maria, luogo d’interesse per i fedeli perché pare lì ci sia stata un’apparizione. Nella cittadina sono poi numerosi gli altari vodun e vi si trova anche un antico palazzo reale.

Poi rieccoci nella città dei contrasti, Lomé, dove si arriva e da dove si fa ritorno.


Ci sono giorni in cui apro gli occhi e resto immobile, nella penombra della mia stanza, con lo sguardo fisso verso il planisfero, quel pezzo di carta su cui segno i posti nel mondo in cui sogno di vivere. Non so dove mi troverò tra vent’anni, non so come sarò, ma ci sarà un posto in cui farò sempre ritorno.

Sentirsi a casa è un’emozione che mi lega alle persone che amo, ma anche a un angolo del mondo in cui mi sento libera di essere me stessa, con i miei limiti, con i miei errori, con i miei pensieri.
C’è un posto, in questo immenso mondo, in cui i problemi si lasciano volare via, dove posso impegnare il cuore in qualcosa che mi fa sentire viva; dove tutto il resto, tutto il superfluo, smette di esistere.

Tornerò sempre, ogni volta che mi sarà possibile.
Tornerò, in punta di piedi, a guardar scomparire le impronte nella terra, a riconoscermi in uno sguardo sfuggente, nascosto tra le foglie.

N. 7° 0’ 27’’
E. 1° 24’ 0,86’’


Se sei arrivat* fin qui, sono sicura che apprezzerai anche il video.
Grazie per il tempo che mi hai dedicato.

Dove dormire: i consigli della Ciao Travel & Tourism di Lomé
📍Hôtel Saint Paulos, Lomé
📍Hôtel Luxembourg, Atakpamé, Ogou
📍Hôtel Gracia, Asrama, Haho
📍Hôtel Mater Christi, Aného, Lacs

Bibliografia
📚
Ryszard Kapuściński, Ebano
📚
Ryszard Kapuściński, In viaggio con Erodoto
📚
Joseph Ki-Zerbo, Storia dell’Africa Nera
📚
Valentin Y. Mudimbe, L’ivenzione dell’Africa
📚 Joshua Foer, Dylan Thuras, Ella Morton, Atlas obscura