Alessia Taglianetti

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Atlas, mostra fotografica itinerante 🌍

Ciao e benvenutə in Atlas 🗺️
Scegli tu se soffermarti sulle parole, sui suoni o sulle immagini, il percorso che ho pensato per te è interattivo ma puoi scegliere la modalità che preferisci.

Se ti va, comincia dalla lettura della presentazione del mio progetto di giornalismo di viaggio Atlas of Languages ⬇︎

Cliccando su questa fotografia, invece, troverai una mia piccola presentazione ⬇︎

Cominciamo il viaggio vero e proprio! Prontə?
Come ti ho spiegato nell’articolo introduttivo, il mio interesse per le lingue e culture indigene è iniziato in Africa subsahariana, più precisamente in Togo e in Benin. Le prime foto della mostra, infatti, sono dedicate ai due viaggi che ho compiuto in questa zona nel 2017 e nel 2019.

Clicca sulle immagini o sul testo in didascalia per leggere il racconto correlato
se vuoi, percorri semplicemente le immagini ascoltando questa playlist⬇︎

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Un piccolo estratto:

Per strada si uniscono musiche diverse: qualcuno chiacchiera, qualcuno riposa, dalle botteghe si propaga l’afro pop della nigeriana Yemi Alade o dell’ugandese Eddy Kenzo. Vicino all’incrocio, una donna intreccia i capelli delle bambine, mentre poco più in là, un sarto, cuce abiti dalle stoffe colorate fino a tarda sera. La musica è una costante, però, anche di notte.

Ci si sveglia quando il sole albeggia, si riposa quando il sole tramonta. Non ci si chiede quanto tempo ci vorrà per arrivare da qui a lì, si va e basta. Si cucina quando si ha fame e non quando è, convenzionalmente, l’ora di pranzo. La parte più bella, però, è poter dire a qualcuno “A più tardi” e non “Ci vediamo alle 14:25” perché puoi starne certo, non si sa quando, ma quel qualcuno arriverà.

Le giornate allora scorrono così, ad Asrama, tra impegni quotidiani e momenti condivisi. Quando cala la sera basta riunirsi intorno al fuoco, preparare una buona porzione di fufu con l’igname e godere della semplice bellezza dello stare insieme. Le case sono sparse, le pareti sono d’argilla e la maggior parte dei tetti in paglia, perché filtra il calore meglio della lamiera. Le persone, però, trascorrono la maggior parte del tempo all’esterno, condividendo il loro tempo con la famiglia allargata.

I primi dettagli

Ricordo di aver scritto un pensiero su ciò che più mi aveva colpito della mia prima giornata in Togo.

Al primo posto, l’odore.
Poco più di un’ora dopo l’atterraggio a Lomé, mentre viaggiavamo in direzione nord, ci siamo fermati a Notsé che era ed è uno snodo stradale fondamentale. Tutto dritto, poi a destra, verso il confine con il Benin. Non è che ci fossero molte alternative, a livello stradale.

Al di là delle mappe, Notsé la ricordo perché è stata la prima cittadina che ho visitato. Il resto del gruppo si è fermato in un baretto a bordo strada, La Fraicheur, mentre due di noi potevano decidere se accompagnare Georges a fare la prima spesa al mercato.

Sono salita in sella alla motocicletta senza pensarci due volte. Lì per lì ho chiuso gli occhi, perché un po’ avevo paura. Ho iniziato a sentire il vento sulle guance, a concentrarmi sugli odori e sui rumori.

C’era questo odore acre di pesce essiccato, la strada principale non si vedeva più, ho riaperto gli occhi in un reticolo di bancarelle cariche di frutta e verdura ed era tutto così nuovo e vero che i miei occhi hanno memorizzato ogni dettaglio, dal numero di carote che abbiamo infilato nel sacchetto alle immagini appese alle pareti.

Ricordo il baccano.
Il mercato di Notsé era una babele, per me. Un miscuglio di parole, soprattutto. Ho pensato che fosse perché il mio francese era molto stentato, solo dopo ho colto quante lingue e dialetti fossero per me completamente ignoti.

Nel baccano, la musica.
Oggi riconosco Toofan, Israel Maweta, Eddy Kenzo. Quella mattina di fine luglio era tutto nuovo, irripetibile, necessario.

Forse solo dopo mesi dal ritorno a casa ho colto il valore di quella musica che, oggi, è al centro dei miei interessi. Qualche giorno fa ho sentito “Last last” di Burna Boy in un centro commerciale di provincia; nel 2017 la musica afrobeat non arrivava in radio, sicuramente non in quelle italiane.

La musica è stato il primo elemento in grado di avvicinarmi al tema della tutela delle lingue indigene. Trasmette un alto livello di coscienza culturale e solidarietà con la propria lingua madre, indispensabile per l’espressione e l’autorealizzazione di sé.

In piroga, al tramonto, nel lago di Togoville

Il porticciolo di Aného

Agbodrafo e la Maison des Esclaves

Woold Homé - forse più nota come la “Maison des ésclaves” - porta con sé, a imperitura memoria, il nome del commerciante di schiavi inglese Woold.⁣⁣
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Il Regno Unito, nel 1807, proclamò lo Slave Trade Act, impegnandosi così per l’abolizione di quell’abominio, ma la storia ha poi fatto un altro corso e la tratta atlantica proseguì ancora per decenni. ⁣⁣
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Woold Homé, infatti, venne costruita nel 1835, poco dopo l’insediamento ad Agbodrafo di una parte del clan Adjigo, cacciato da Aného e guidato dal capo Assiakoley. Quest’ultimo, abituato alla schiavitù imperante in quel tratto di costa, fece costruire questo edificio per portare avanti i propri affari.⁣⁣
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Le stanze ospitavano i mercanti di schiavi, mentre sotto ai loro piedi, nascosti in uno “scantinato” che raggiunge a malapena il metro e mezzo di altezza, venivano stipate le persone rese schiave. Alzarsi era impossibile e le persone lì imprigionate restavano sedute, accovacciate o distese sulla sabbia umida, a pochi metri dall’oceano.⁣⁣
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I prigionieri, provenienti da quelli che oggi sono gli stati del Togo, Benin, Ghana, Burkina Faso, Niger e Nigeria, passarono in migliaia da quel tugurio e dal Gatovoudo, il “pozzo incatenato” dove, prima di essere imbarcati sulle negriere che li avrebbero poi condotti nelle Americhe, subivano il loro ultimo “bagno di purificazione” sul suolo africano.⁣⁣
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Woold Homé, oggi, è un monumento, un testimone silenzioso di una tragedia umana che si protrasse tra l’ultimo quarto del XVII secolo e la fine del XIX.⁣⁣

Ganvié: porto sicuro sul lago Nakoué, lontano dagli schiavisti portoghesi

La foresta sacra di Kpassé a Ouidah, Benin

La danza di Zangbéto, divinità voudou – Ouidah, Benin

Ouidah, la via e la porta del non ritorno

La storia di Ouidah è legata a doppio filo con il passato, in particolare con la tratta delle persone rese schiave.

Prima di arrivare alla Porta del non ritorno - raffigurata nella fotografia - si percorre l’omonima via: quattro chilometri in direzione dell’oceano, da place cha-cha al muro di lamenti.

In place cha-cha si teneva il mercato degli schiavi: uomini e donne venivano condottə sotto al grande albero, piantato nel 1747 da un re Dahomey.

Qui venivano marchiati a fuoco, per poi essere condotti all’albero dell’oblio, luogo in cui avrebbero dovuto dimenticare le loro origini e la loro storia.
Il rito consisteva nel girare in senso orario attorno all’albero: 9 giri per gli uomini, 7 per le donne.

Il passaggio successivo consisteva nella segregazione: le persone - che dopo il rito venivano considerate corpi vuoti di spirito - venivano incatenate negli Zomai, ovvero stanze buie, letteralmente “dove la luce non va”.

Restavano lì per settimane, a volte per mesi, in modo da perdere la percezione del tempo e la forza di ribellarsi.
Nel luogo in cui si trovavano queste stanze ora si trova un memoriale, il muro di lamenti.

Qui il caos delle strade circostanti stride, si resta in silenzio in segno di rispetto.

Coloro che sopravvivevano alla reclusione negli Zomai venivano portati sotto l’albero del ritorno, albero sopravvissuto al corso del tempo e ancora visibile lungo la strada.
Qui si svolgeva una cerimonia con la quale si garantiva agli schiavi il ritorno, dopo la morte, dell’anima.
Anche qui uomini e donne dovevano girare intorno all’albero per tre volte in senso orario.

Completato questo rituale, le persone rese schiave raggiungevano la spiaggia nel punto in cui oggi si trova la porta del non ritorno.
Poi, la partenza verso l’ignoto.

Lungo la via si trovano oggi le statue del regno di Dahomey. Ogni re viene raffigurato con un simbolo o un animale che, in vita, li ha rappresentati. Si trova ad esempio la statua di un camaleonte, simbolo di un re salito al potere a 60 anni e che, a causa dell’età, prendeva decisioni molto lentamente.
L’ultimo re è simboleggiato da un piede e da un sasso, figura che significa “calciare via i francesi”, interpretata oggi anche come la necessità di non cadere più in errore, perdonare il passato ma senza mai dimenticare.

Padrão dos Descobrimentos

Il monumento alle Scoperte, o Padrão dos Descobrimentos in portoghese, situato a Belém sulla riva del fiume Tago, fu realizzato nel 1960, a cinquecento anni dalla morte di Enrico il Navigatore, per celebrare l'Età portoghese delle scoperte realizzate dai navigatori portoghesi fra il XV ed il XVI secolo.

Il monumento fu iniziato sotto il regime di Salazar e voleva celebrare tutti i marinai che parteciparono alle esplorazioni.

Il monumento attuale non è però quello originale. La prima versione del monumento, costruita nel 1940 per l'esposizione universale Exposição do Mundo Português, fu demolita nel 1958 in quanto costruita con materiali scadenti, era ridotta in condizioni da costituire pericolo per le persone che lo visitavano. L'attuale monumento è stato realizzato in pietra bianca.

La caravella che costituisce il monumento porta lo scudo portoghese su entrambi i lati e la spada del casato di Aviz sulla porta d'ingresso. Sulla prua della caravella è rappresentato Enrico il Navigatore con una caravella in mano; dietro di lui, in due file discendenti da entrambi i lati del monumento, sono rappresentati gli eroi portoghesi che parteciparono alle scoperte. Sul lato che dà a occidente è ritratto il poeta Camões con un esemplare del suo capolavoro I Lusiadi, il pittore Nuno Gonçalves con una spatola ed inoltre famosi navigatori, cartografi e re.

A nord del monumento, una rosa dei venti di 50 metri di diametro, contiene al centro le rotte scoperte dai navigatori portoghesi, nel XV e XVI secolo.

Nye beach, Oregon Coast

Un piccolo estratto:

Origine della parola Yaquina

"Yaquina" originariamente si riferiva a una tribù di nativi americani. La lingua della tribù Yaquina è ora estinta, quindi è impossibile definire come si dovrebbe pronunciare questa parola.

I residenti di lunga data dell'area di Yaquina Bay - vicino a Newport, nell'Oregon - ora pronunciano "yah kwin ah" o "yah kwin nah".

Anche la trascrizione del nome della tribù Yaquina ha portato a diverse grafie. Gli esempi includono Iakon, Yakone, Youikeones, Youkone, Yacone e Acona.

La tribù Yaquina contava 19 villaggi a nord e 36 villaggi a sud del fiume Yaquina e della baia. L'articolo di Byram “Colonial Power and Indigenous Justice: Fur Trade Violence and Its Aftermath in Yaquina Narrative” (2008, Oregon Historical Quarterly Vol. 109, Issue 3) rivela che gli Yaquinas ebbero una storia travagliata con i commercianti di pellicce.

Oggi, Yaquina si riferisce anche a un fiume, una baia, un promontorio e una città abbandonata lungo la costa centrale dell'Oregon, dove in precedenza visse questa tribù.

Yaquina può simboleggiare un "senso del luogo" che, chi abita in questa zona da generazioni, può percepire ovunque si trovi. Tuttavia, gli attuali residenti hanno probabilmente un senso del luogo completamente diverso rispetto agli ex abitanti della tribù Yaquina, che dipendevano dalla terra per sopravvivere.

Welcome to the Pacific North West

I popoli indigeni della costa nord-occidentale del Pacifico sono composti da molte nazioni e affiliazioni tribali, ognuna con identità culturali e politiche distintive.

Condividono alcune credenze, tradizioni e pratiche, come la centralità del salmone come risorsa e simbolo spirituale, e molte pratiche di coltivazione e sussistenza.

Il termine Northwest Coast o North West Coast è usato in antropologia per riferirsi ai gruppi di popolazioni indigene che risiedono lungo la costa di quella che ora è chiamata British Columbia, stato di Washington, parti dell'Alaska, dell'Oregon e della California settentrionale.

Vancouver

Vancouver ha approvato il progetto per la realizzazione di un quartiere destinato ad accogliere alcune famiglie della popolazione indigena squamish, nella stessa aera, dove sorgeva un villaggio degli stessi autoctoni, distrutto dalle autorità per interessi industriali oltre 100 anni fa.

Il nuovo quartiere si chiamerà Senakw, in omaggio all’antico villaggio, avrà 11 grattacieli e 6 mila abitazioni che saranno in grado di accogliere circa 10 mila residenti  diventando, così, il maggior nucleo indigeno in una città canadese.

Gli indigeni costituiscono oggi il 3% circa della popolazione canadese: tra loro gli sqwamish, che oltre ad essere una comunità, formano una municipalità distrettuale – la Squamish Nation della Columbia Britannica.
La loro presenza nella zona dell’attuale Vancouver, secondo gli scavi archeologici, si perde nella notte dei tempi, mentre gli europei (che la colonizzarono) arrivarono soltanto alla fine del XVIII secolo: dapprima fu l’esploratore spagnolo José María Narváez seguito dal britannico George Vancouver, al quale verrà dedicata la metropoli che ottenne lo status di città soltanto 1886.

Il villaggio Senakw si trovava in un’aera protetta,  ma le autorità provinciali costrinsero le persone indigene a vendere le loro terre per poi portarle verso il nord del Paese. La compagnia ferroviaria Canadian Pacific Railway vi costruì un terminal, ma quando nel 1989 tentò di rivendere il terreno, gli sqwamish lo rivendicarono. La vicenda finì in tribunale: una sentenza del 2002 ha permesso alla comunità indigena di recuperare parte del territorio.

Secondo alcuni studiosi – riporta ancora The Guardian – sostenitori, per studio e analisi, dell’incompatibilità tra gli indigeni e l’urbanità, il nuovo quartiere rappresenterà una sfida, comunque sfumata soltanto dal fatto che sarà anche una risposta alla crisi abitativa cronica di Vancouver.

Ma comunque la si veda, Senakw rappresenterà un progetto di inclusione sociale degli indigeni, già sviluppato dagli anni Novanta in Nuova Zelanda, dove lo sviluppo edile rispecchia negli edifici pubblici e privati anche i principi Maori, come dimostra la ricostruzione di Christchurch dopo i terremoti del 2010 – 2011.

Puerto Viejo de Talamanca

Il Calipso nasce a Trinidad e Tobago, tra le persone rese schiave delle piantagioni di banane, come una sorta di “notiziario cantato”, unica forma di comunicazione in un contesto di oppressione dove ai lavoratori era proibito parlare tra di loro.

Di sera, nelle piantagioni, il cantore raccontava tutto quello che era accaduto durante il giorno, e in questo modo trasmetteva anche messaggi e notizie delle famiglie.

A Limon giunse la Mento Music, un genere molto simile al Kaiso o Kaliso di Trinidad,  ma meno conosciuto, e con la differenza che il Mento Music era solamente acustico, privo di parti cantate. Successivamente si impose il Kaliso e divenne molto popolare agli inizi del Novecento e, per un errore di trascrizione, venne battezzato Calypso dalla stampa statunitense.

La prima orchestra di Calypso, contrattata nel 1976 per suonare a San José, nella capitale, è il Combo Alegre, che aprirà la strada a molti artisti e gruppi poi divenuti parte della musica popolare Costarricense, come Lenky (Dont stop The carnival), Darkins (Zancudo), e molti altri, tra cui si ricordano Roberto Kirlew, Buda.

Walter Gawitt Fergusson, musicista di Cahuita, non ha avuto rivali capaci di avvicinarsi al suo trono di “calypsonian”: con musica e parole allegre e brillanti Fergusson ha saputo descrivere con humor e ironia la vita della gente del Caribe di Costa Rica. Ormai considerata parte della musica tipica di Costa Rica, il Calypso ha ogni giorno nuovi gruppi che ne mantengono viva l’essenza e che descrivono la vita e il modo di essere di una parte importante dell’identità nazionale.

Isla cementerio (o Isla de los Muertos) — Cabuya, Puntarenas, Costa Rica 🇨🇷

Questa piccola isola a pochi chilometri dal centro di Cabuya ha iniziato a essere considerata un cimitero quando vi hanno trovato una persona annegata.

Gli abitanti del luogo non sapevano chi fosse la vittima, così hanno deciso di seppellirla laddove l’avevano trovata, innescando una tradizione mantenuta intatta fino ai giorni nostri.

Essere sepolti sull’isola ha un grande valore spirituale, perché mantiene intatto il legame con la comunità e con le persone care.

Secondo alcune fonti storiche era già tradizione locale delle popolazioni indigene utilizzare l’isola come cimitero, un’ipotesi che darebbe prova della continuità storica della funzione dell’isola e dell’utilizzo del territorio da parte degli indigeni di Puntarenas.

Sotto alle folte chiome delle palme riposano gli antenati di Cabuya, le loro tombe sono decorate con ghirlande di fiori e grandi conchiglie bianche.

Se vuoi visitare questo posto, oltre a portare con te tutto il rispetto di cui sei capace, dovrai armarti di molta pazienza: l’isola si può raggiungere a piedi solo per un paio d’ore al giorno durante la bassa marea.

Produzione di cioccolata all’Indigena Café, provincia di Puntarenas, Costa Rica

La Fortuna, Costa Rica

Vulcano Masaya - Nicaragua (clicca sul link per guardare il video)

Nicaragua

Infine, Riace.

Realizzare questo cortometraggio è stata un’esperienza forte, toccante e per me molto significativa.

Quando ho ricevuto questo incarico sapevo che non sarebbe stato facile, che per raccontare certe storie ci vuole più delicatezza di quella che dosiamo per accarezzare un bambino.

Raccontare Riace è sentirsi fragili.

Ogni secondo vissuto lì mi ha fatto maturare scelte e visioni che cercherò di condividere in queste righe, dove forse alcunə tra i ragazzi e le ragazze del campeggio si riconosceranno, perché sono nate dalle condivisioni, dai discorsi che abbiamo fatto, dalle riflessioni in comune.

In primo luogo, non riprendere i volti dei bambini e delle bambine.

Sono convinta che per raccontare Riace, così come per raccontare qualunque altra storia, anche in un modo emozionante come questo viaggio merita, non sia necessario strumentalizzare le immagini di bambinə che, quotidianamente, vivono con i loro occhi puntati negli obiettivi di giornalisti, televisioni e media in generale.

I bambinə di Riace compaiono nel video solo di schiena oppure in visioni d’insieme, nel pieno rispetto della loro privacy e della loro serenità.

In secondo luogo, con spero altrettanta delicatezza, la scelta di non puntare la telecamera sui ragazzi e sulle ragazze, soprattutto nei momenti di restituzione.

Raccontare il viaggio di 46 persone non è facile.

Ognuno ha le proprie sensibilità, le proprie fragilità: questo viaggio le fa toccare con mano, ti ci fa scavare dentro, e metterci una telecamera in mezzo avrebbe potuto rompere l’autenticità di tanti momenti.

È nata così l’idea di inserire nella timeline gli splendidi acquerelli di Simone Mostacci, che ha saputo rappresentare con le immagini le arterie principali di questo percorso. A lui il mio primo grazie.

Poi, la scelta di cosa non riprendere e di come rappresentare questo silenzio.

San Ferdinando è un pugno nello stomaco.

Per conoscere San Ferdinando è necessario ascoltare, più che vedere.

Ascoltare le storie invisibili.

Il giorno della visita a San Ferdinando, la telecamera è rimasta in campeggio. Credo fosse necessario.

Ho provato a rappresentare questo momento con una sequenza di silenzi.

So che saprete ascoltarli.

E ancora la musica.

Gabriele Guerra, nel realizzare la colonna sonora originale, ha preso spunto dalla nostra playlist condivisa “Colonna sonora della Rivoluzione”, per poi realizzare due brani che spaziano dall’afrobeat di Burna Boy alla poesia di Cantaré, firmata Mannarino, che proprio il giorno della nostra partenza ha fatto visita a Mimmo Lucano nel Villaggio Globale di Riace.

Infine, le lingue, un tema a me molto caro.

Ho avuto l’enorme fortuna di conoscere alcune terre al di là del Mediterraneo, in particolare il Togo e il Benin, due viaggi che mi hanno fatto comprendere, sempre attraverso il dialogo, il valore di temi invisibili come l’importanza di tramandare le lingue native.

Per realizzare le interviste a Riace, grazie alla bravura di Momo, Mohamed Aly - amico e compagno di viaggio, oltre che bravissimo mediatore culturale - ho colto l’opportunità di intervistare molte persone senza passare dalle lingue più diffuse come l’inglese, che nei confronti di alcuni sono lingue coloniali.

Nella versione estesa del cortometraggio, che spero avrete occasione di guardare, ci sono interventi multilingua. Sono convinta che esprimersi nella propria lingua nativa lasci nel discorso sfumature che, esprimendosi in una lingua non propria, rischiano di perdersi.

E ho notato con dispiacere che, in Paesi come la Nigeria, di dove sono originarie due delle ragazze intervenute, alcune lingue native sono già perse e loro, infatti, hanno scelto di raccontarsi in inglese.

Guarda il documentario su Riace

Grazie di cuore per aver vissuto questo viaggio con me! 🌎

Qualunque emozione tu abbia provato, se ti va, scrivimela in un commento qui sotto 🤍